Art. 52/2025 – Responsabile editoriale: Lorenza Vacchetto
Di Francesca Passeri
Riconoscere e valorizzare il sapere delle comunità artigiane indigene non è solo un atto etico: è una strategia concreta per ridistribuire ricchezza, sostenere le economie locali e costruire un futuro più equo nel settore moda.
La sostenibilità culturale verso modelli economici più giusti e inclusivi sta emergendo come un pilastro essenziale nella transizione verso una nuova missione della moda che sia capace di recuperare le tradizioni estetiche forgiate in comunità artigianali, spesso marginalizzate, riconoscendole il valore come custodi di competenze preziose e future.
L’artigianato tessile, praticato da generazioni in molte comunità indigene e rurali, è al centro di un dibattito cruciale: il settore moda rispetta davvero le proprie radici manifatturiere? La sostenibilità non è più soltanto materiali ecologici o riduzione degli sprechi: significa riconoscere le radici della filiera — territori, persone, saperi. Questo implica valorizzare i luoghi d’origine e le comunità che custodiscono tecniche e risorse, promuovendo una sostenibilità trasparente e tracciabile, che metta in luce la dignità del lavoro per relazioni di scambio, non di sfruttamento.

Accanto a questa consapevolezza, persiste un fenomeno ricorrente: brand e maison della moda attingono a forme di artigianato nate in piccole comunità come fonte di ispirazione gratuita, erodendo patrimoni culturali senza costruire partnership a tutela delle economie locali.
Motivi tradizionali vengono spesso reinterpretati in modo scollegato dalle loro origini simboliche e spirituali. È qui che interviene il concetto di appropriazione culturale: l’adozione, da parte di gruppi dominanti, di elementi culturali provenienti da comunità marginalizzate — spesso senza contesto, consenso o compenso. Esempio recente: le accuse ad Adidas per il design delle scarpe “Oaxaca Slip-On”, ritenute troppo vicine ai sandali huarache tradizionali e commercializzate senza il necessario coinvolgimento dei creatori.
E ancora, nel 2020 la maison italiana Max Mara è stata al centro di un acceso dibattito dopo la presentazione della collezione Resort: alcune creazioni mostravano forti similitudini con motivi tradizionali della comunità Oma, piccolo gruppo indigeno del nord del Laos. Ricami e composizioni grafiche ricordavano gli intricati disegni geometrici e simbolici tramandati dalle donne Oma. Il Traditional Arts and Ethnology Centre (TAEC), organizzazione impegnata nella tutela del patrimonio delle minoranze etniche del Laos, ha contestato la riproduzione fedele di quei motivi senza riconoscimento o coinvolgimento delle artigiane locali.
Ecco che la questione va oltre l’estetica: ogni scelta creativa ha ricadute etiche, economiche e politiche quando coinvolge patrimoni culturali intangibili. La denuncia del TAEC riporta l’attenzione sulla necessità di pratiche più eque e collaborative tra moda e culture locali. Concetti chiave: responsabilità, riconoscibilità delle fonti, coinvolgimento delle comunità, condivisione dei benefici economici e delle narrazioni.
Nel contesto attuale, ogni nuova creazione dovrebbe sostenere la sostenibilità culturale, intrecciata con giustizia sociale e resilienza economica: è la strada per una moda etica e inclusiva.

Le differenze tra apprezzamento, ispirazione e appropriazione sono complesse, a partire dal confine sottile tra il lasciarsi ispirare e l’ appropriarsi di elementi di un’altra cultura. Proviamo a fare chiarezza: cosa accade quando non si prende solo un motivo o un colore, ma la memoria viva di un popolo — intrecciata in ogni filo, scolpita in ogni forma — un sapere affidato e protetto per essere tramandato?
La moda è costellata di episodi che trasformano gesti autentici in merce: da Victoria’s Secret (copricapi nativi americani in passerella) a Isabel Marant (proteste per l’uso di motivi tradizionali della comunità Mixe nello stato di Oaxaca, Messico, senza riconoscimento dell’origine dei ricami), fino a dibattiti su collezioni che reinterpretano simboli di culture dell’Africa occidentale senza adeguata consultazione delle comunità coinvolte, come nel caso di Louis Vuitton al centro di un acceso dibattito per una collezione di tappeti e abiti che reinterpretavano simboli visivi della cultura Nerberà del Burkina Faso.
Il patrimonio culturale — come i ricami delle donne Oma — non è un serbatoio estetico: è un bene collettivo. La moda, se responsabile, si interroga sulle proprie dinamiche di potere e costruisce co-design con etichettature che riconoscano provenienze culturali e partnership eque. Sono esempi virtuosi di come il settore possa diventare ponte anziché perpetuare disuguaglianze, superando una visione in cui il Sud globale è solo fonte di ispirazione e non interlocutore attivo.
A questo si aggiunge il tema del valore della produzione nel rapporto tra aziende e popolazioni che forniscono materie prime — spesso di altissima qualità, come alcune fibre naturali o lane pregiate: un rapporto ancora profondamente sbilanciato. Sono disuguaglianze strutturali che riguardano economia e diritti del lavoro e toccano anche il patrimonio culturale delle comunità.
Un passo concreto in questa direzione è rappresentato dalla pubblicazione delle prime Linee guida per la collaborazione con le comunità indigene nella moda, note ufficialmente come “Indigenous Partnership Principles for the Fashion, Apparel, and Textile Industries”., Documento pionieristico che delinea principi e strumenti per costruire partnership eque, trasparenti e a lungo termine, basate sul consenso libero, informato e reciproco. Sviluppato da Conservation International insieme a Textile Exchange, con il supporto del gruppo del lusso Kering, è frutto di numerose consultazioni con 33 rappresentanti di comunità indigene in 15 paesi e 7 regioni socioculturali e viene presentato per la prima volta durante il Global Fashion Summit di Copenaghen nel maggio 2024.
L’obiettivo: superare la logica estrattiva e promuovere co-creazione, rispetto, redistribuzione del valore e sostenibilità culturale. Tra i dodici principi, spiccano:
• adottare una mentalità di partnership;
• rispettare popoli e comunità;
• comprendere e ridurre gli impatti ambientali e sociali;
• essere onesti e trasparenti;
• rispettare i design indigeni e locali;
• garantire compensazioni eque;
• condividere conoscenze e risorse;
• investire nel futuro dell’artigianato e dell’industria indigena;
• rafforzare in modo sistemico le pratiche del settore moda/tessile.
Le Indigenous Partnership Principles segnano un cambio di passo concreto nelle relazioni tra moda e comunità indigene e rilanciano il ruolo dello stilista: non più artista isolato, ma “mediatore culturale” che investe in principi guida chiari. Vediamone alcuni.
• Rispetto, compensazione, investimento nel futuro: la collaborazione tra la comunità Asháninka e il brand brasiliano Osklen ha previsto royalties destinate a costruire una scuola nel villaggio. Un altro esempio è il progetto Amazonas – Sioduhi Waíkhᵾn con il popolo Pira-Tapuya, che co-crea accessori in fibre di palma Tucumã.
• Opportunità e visibilità: MI Moda Indígena, co-fondata da Rebeca Ferreira (comunità Mura e Munduruku), offre corsi gratuiti di cinque mesi in moda, design, business e marketing per creativi indigeni.
• Trasparenza economica e tutela del creatore: il brand brasiliano Tamã, nato dalla collaborazione tra comunità indigene e afrodiscendenti (quilombolas), acquista illustrazioni di donne Kayapó garantendo una remunerazione per ogni vendita.

Nuovi scenari che mostrano come non si possa più ignorare la dimensione antropologica della creazione: ogni segno, ogni simbolo, ogni ornamento è espressione di una visione del mondo. Quando uno stilista si ispira a culture etniche, non si tratta solo di attingere a una grammatica estetica, ma di riconoscere e rispettare l’intero ecosistema culturale che la sostiene. In questo senso, la moda può diventare una scoperta delle origini, un viaggio rispettoso nei saperi ancestrali, capace di offrire una struttura più profonda della semplice replica, esplorando i rituali e le geografie simboliche di una cultura per progettare collezioni che siano ponti e cedere parte del controllo creativo generando un processo di co-creazione autentico.
Questa è la potente mission di The Craft Atlas, piattaforma online fondata nel 2014 a Helsinki da Anja-Lisa Hirscher (ricercatrice nel campo del design) e Cecilia Palmér (designer e tecnologa), con una rete internazionale di designer, artisti e ricercatori: creare un atlante digitale dei mestieri artigianali per informare, ispirare e offrire risorse sulle tecniche tradizionali e contemporanee. L’obiettivo è promuovere pratiche di design culturalmente sostenibili, ripensando produzione e fruizione attraverso metodi locali e artigianali basati su competenze specialistiche.
In alternativa alla fast fashion, The Craft Atlas favorisce la collaborazione tra artigianato tradizionale e design contemporaneo, abilitando produzioni locali e consapevoli, radicate nei contesti culturali. L’obiettivo è ispirare i designer alla collaborazione — parola chiave — per agire come narratori etici e trasformare la moda in un linguaggio interculturale.
La sfida non è chiudere i ponti tra culture, ma costruirli meglio. L’appropriazione può diventare collaborazione culturale solo se si riequilibrano le dinamiche di potere. Dal “fashion system” a una “fashion culture”: regole riscritte, narrazioni condivise e sostegno attivo ai popoli custodi di saperi ancestrali.
Solo così la moda potrà essere davvero globale, inclusiva e giusta.
Vuoi contribuire al dibattito su moda e responsabilità? Unisciti alla community di rén collective e condividi la tua voce.
Sitografia:
The Oma Case – Traditional Arts and Ethnology Centre https://www.taeclaos.org/oma/
https://www.bbc.com/news/newsbeat-51177738
https://www.sustainable-fashion.com/decolonising-fashion-and-textiles
https://www.lifegate.it/moda-comunita-indigene
https://craftatlas.co/?fbclid=IwAR1y1STAtWpDPJu0GBjfvQAJTdkwC463SstnHkZ2GHYHVn2y0GnZrYGgqvg
https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/15487733.2022.2100102
https://www.sustainable-fashion.com/decolonising-fashion-and-textiles
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