Ottobre 10th, 2018

La plastica è ovunque, ma è davvero così?

di rén collective

Di Daniela Iallorenzi

Art. 2/2018 – Responsabile editoriale: Lorenza Vacchetto

Nell’ambito del discorso sulla sostenibilità quello intorno alla plastica è da sempre uno dei temi più appassionanti.

 

Eppure, nonostante se ne parli da tempo e in maniera diffusa, ci sono ancora molta disinformazione e falsi miti da sfatare che spesso non ci aiutano a prendere una posizione netta a riguardo. Questo perché nella maggior parte dei casi si passa dal pronunciare giudizi severi — e non sempre precisi nei confronti delle abitudini iper-consumistiche del cittadino medio — all’attribuire tutte le responsabilità a monte, a fronte di pratiche imprenditoriali non esattamente green.

La verità come spesso accade si trova nel mezzo. Piuttosto che di dicotomia tra le colpe di un consumatore poco attento e le responsabilità di produttori alla ricerca di un profitto a tutti i costi, in questo caso dell’ambiente, proviamo a riflettere in maniera più ampia sulle implicazioni nascoste di tutto questo sistema. Potremmo iniziare a farlo rispondendo a dei semplici interrogativi che probabilmente vi sarete posti anche voi.

 

Che cosa è la plastica?

Dove si trova esattamente ?

É il consumatore che deve agire o è compito in primis del produttore?

Che cosa possiamo fare per limitarne il consumo?

Ci sono delle alternative alla plastica?

 

Dalla plastica alle materie plastiche

Innanzitutto più che di plastica sarebbe più corretto parlare di “materie plastiche”, in considerazione della struttura polimerica plurale delle stesse. Le materie plastiche sono tipicamente composte da polimeri sintetizzati artificialmente e quindi non biodegradabili ma disintegrabili per l’appunto in minuscoli frammenti dai 330 micrometri e i 5 millimetri di diametro, che hanno purtroppo un lunghissimo ciclo di vita, sono estremamente leggeri e per questo facilmente trasportabili dal vento e dai fiumi, quindi potenzialmente in grado di finire letteralmente ovunque.

Ad oggi, la situazione ci mostra che, sebbene siano state immesse sul mercato, da un numero sempre più crescente di produttori, materie plastiche biodegradabili con le stesse proprietà ed usabilità della plastica ‘’tradizionale’’ — a partire dalle più note quali l’amido a quelle basate su idrocarburi più complessi, passando per la cellulosa e arrivando alla lignina (per quantità i secondi biopolimeri sintetizzati sulla Terra dopo la cellulosa) — bisogna fare ancora molta attenzione a tutti i componenti addizionali (additivi stabilizzanti, lubrificanti, pigmenti, riempitivi) che separandosi durante la degradazione, possono essere fortemente nocivi e alterare gli ambienti naturali.

 

 

Parliamo di sostenibilità

Se si analizza la gravità della questione si tenderà a provare a individuare delle responsabilità. Immediatamente viene da pensare al principio della filiera produttiva analizzando l’operato di produttori, trasformatori e marchi di tessuti. Certamente, ad esempio, si dovrebbe aumentare la produzione biologica di colture in fibra naturale come il cotone e di quelle varietà alimentate a pioggia. Al contrario per i marchi che usano fibre sintetiche sarebbe necessario, da un lato, un aumento nell’utilizzo di tessuti in plastica riciclata, dall’altro, una riflessione sulla gestione del ciclo di fine vita del capo.

Eppure in realtà la questione potrebbe essere valutata anche da un’altra angolazione, ossia quella del consumatore medio che con le proprie abitudini di acquisto avrebbe il potere per intervenire positivamente o negativamente su più di un elemento fra quelli che governano il sistema. Nel figurarvi questo scenario con facilità vi verrà da pensare al ricorso smodato a oggetti in plastica monouso come posate, piatti, cannucce o tazzine da caffè. Eppure dovremmo considerare che nel nostro quotidiano la presenza della plastica incombe non solo su tutto ciò che concerne l’alimentazione ma anche e soprattutto su quello che indossiamo o con cui, se di natura tessile, veniamo in contatto.

 

 

Intervenire si può

A questo punto della riflessione potremmo affermare che globalmente non abbiamo ancora la necessaria sensibilità né la giusta informazione per evitare l’utilizzo della plastica. Quanto ciò costituisca un problema da fronteggiare nell’immediato futuro appare ancora più chiaro quando si leggono le drammatiche proiezioni che stimano un aumento sempre più crescente nella quantità di plastica che indosseremo e laveremo.

Questo accade perché anche nel portare avanti operazioni semplicissime quali il lavaggio dei capi di abbigliamento o i tessili in generale, la plastica in essi contenuta può liberare minuscole microfibre che passano dal nostro sistema idrico ai mari e quindi alla nostra catena alimentare. Proprio questa “zuppa sintetica” costituisce una delle principali forme di inquinamento e minaccia degli ecosistemi marini.

Come consumatori abbiamo quindi il dovere di controllare opportunamente le etichette dei prodotti quando facciamo shopping e di acquistare il più possibile da aziende sostenibili, facendo perdere quote di mercato alle aziende produttrici che non fanno delle buone pratiche il loro baluardo.

 

 

Possibili alternative

Tuttavia, al di là delle buone intenzioni personali e dei piccoli cambiamenti che possiamo singolarmente mettere in atto, dobbiamo fronteggiare la realtà che le materie plastiche sono talmente infiltrate nel nostro quotidiano da rendere complicato il loro completo sradicamento dai nostri stili di vita.

Certamente il riciclo potrebbe essere un’alternativa, poichè avrebbe degli effetti positivi sia sulla dispersione nell’ambiente delle microplastiche che sulla riduzione della quantità di nuova plastica generata nel mondo.

Eppure è necessario riflettere per bene su questa ipotesi che deve essere affrontata nel modo corretto. Il prodotto riciclato infatti, finisce per sottostare alle stesse regole del mercato economico di un qualsiasi altro prodotto sottoposto alle leggi della domanda e dell’offerta. Di conseguenza, in parole molto semplici, anche questo ipotetico prodotto riciclato, per quanto ideale per la salute dell’ambiente e delle persone, se non dovesse essere ritenuto appetibile per il mercato, rimarrebbe bloccato nei magazzini e in quello stesso istante annullerebbe o rallenterebbe l’impatto ambientale positivo per cui era stato immaginato.

Inoltre bisogna considerare che riciclare potrebbe non essere sempre così sostenibile come ci immaginiamo, poiché richiede un’enorme utilizzo di energia e risorse nonchè elevati costi di produzione.

Bisognerebbe valutare ad esempio che il processo di fusione e riciclaggio della plastica produce fumi VOC, o composti organici volatili, che possono arrecare danno sia alla vita animale che vegetale nei pressi del sito industriale in questione. Contemporaneamente il calore necessario per fondere la plastica genererà necessariamente anche delle emissioni di anidride carbonica nell’aria, che complessivamente contribuiscono negativamente all’aumento del riscaldamento globale.

A tutto questo si deve aggiungere che la plastica non può subire un ciclo infinito di ricicli: siamo nel campo di azione del “downcycling” per cui si opererà per reimmettere nella catena produttiva il materiale plastico recuperato ma si otterrà una materia prima meno pregiata di quella originaria, generalmente inadatta per un’ulteriore fase di riciclo.

Il grande paradosso è quindi che nonostante tutto, il downcycling non risolverà completamente il problema ma ritarderà solamente l’inevitabile fine in discarica del prodotto in plastica.

È quindi chiaro che l’intera filiera della plastica vada rimodulata sinergicamente, a tutti i livelli, e tutti noi, uno per uno, possiamo esserne i promotori!

Immagini: Jon Tyson, Daria Shevtsova, Daniel Gold

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