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Abbigliamento progettato per diventare spazzatura: un viaggio tra sovrapproduzione, giacenze, riciclo e rifiuti

di rén collective

Di Sara Cavagnero

Art. 37/2022 – Responsabile editoriale: Lorenza Vacchetto


-“L’impulso a vendere di più e convincere i consumatori ad acquistare è ancora nel DNA del settore”,
ha affermato il co-segretario dell’Alleanza ONU per la moda sostenibile.
“I vestiti hanno una vita molto breve e finiscono in discarica”.

Nonostante si moltiplichino i claim di sostenibilità nel settore moda, i dati sono allarmanti. Sebbene gli sforzi più comuni – tra cui spicca l’utilizzo di fibre e tessuti innovativi ed ecosostenibili – siano lodevoli, non sono sufficienti per affrontare in maniera efficace il consumo crescente di risorse e la produzione di rifiuti del settore.

 

Anziché diventare “slow”, il fast fashion è stato superato dall’ultra-fast, con volumi senza precedenti sul mercato. Basti pensare che, dall’inizio del 2022, i giganti del fast fashion H&M e Zara hanno lanciato circa 11.000 nuovi stili congiuntamente. Nello stesso periodo, Shein ha realizzato ben 314.877 modelli

La proposta di questo colosso, analogamente a Fashion Nova, Boohoo, PrettyLittleThing e Cider, si basa su micro trend. Come osservato da Silvia Gambi, “ogni giorno migliaia di nuovi articoli vengono resi disponibili sui loro siti e spinti mediaticamente per dare forma a un desiderio di acquisto che può essere soddisfatto in maniera immediata. I capi costano pochissimo, sono di pessima qualità, vengono indossati un paio di volte e poi buttati via, per lasciare posto al trend del giorno dopo.

Ciò genera, inevitabilmente, un sovra-consumo di risorse, oltre che una mole infinita di rifiuti.

In questo articolo vogliamo fare un viaggio tra quei capi d’abbigliamento che sono concepiti per diventare spazzatura, dando risposta alle domande più frequenti.

 

Sovrapproduzione

Questo fenomeno è determinato dalla divergenza tra quanto acquistato e quanto prodotto da un brand.

Nonostante i miglioramenti nella tecnologia, infatti, prevedere i trend di acquisto per migliaia di modelli rilasciati mensilmente è estremamente complicato e presenta un certo margine d’errore. Pertanto, le scorte di capi inevitabilmente si accumulano e, secondo Business of Fashion, il 40% dei prodotti di moda viene venduto a un prezzo ribassato oppure distrutto perché in eccedenza. 

Tuttavia, quello della sovrapproduzione non è soltanto un problema di conteggi errati, bensì di precisi calcoli di convenienza economica legata al produrre di più.

Lo abbiamo visto con i nostri occhi nel corso della nostra visita da Green Line, azienda con sede nelle colline marchigiane che opera in Italia e all’estero per la raccolta ed il riciclo dei rifiuti tessili, la commercializzazione di materie prime, stock di tessuti, filati e pezzame per l’industria.

In tale occasione, i macchinari di Green Line stavano operando la distruzione di prodotti finiti di un importante brand di lusso, perché invenduti. La fibra che vedete, prima di essere sbriciolata, componeva felpe mai giunte in negozio e quindi totalmente nuove.

Highlights – Guarda anche tu la visita a Green Line attraverso i nostri occhi

 

Giacenze di produzione (deadstock)

Mentre scriviamo, si stima che nei magazzini di tutto il mondo giacciano tessuti inutilizzati per un valore che supera i 120 miliardi di dollari. Tali prodotti non vengono adoperati dai brand per una serie di ragioni, tra cui la mancata corrispondenza del colore alle aspettative, ordini in quantità superiore al necessario, materiali non risultati idonei allo scopo per cui erano stati acquistati. 

Molto spesso, anche questi materiali finiscono per essere bruciati o distrutti. Nella migliore delle ipotesi, invece, finiscono in magazzini – proprio come quello da noi visitato di Green Line – che si occupa di rivendita delle giacenze. Tutti possono acquistare liberamente tessuti e filati di giacenza, di cui necessitano.

   

 

Ovviamente Green Line non è l’unica realtà che effettua questo servizio. Tuttavia il problema delle giacenze invendute persiste perché, come vedete, per un magazzino così grande e una tale varietà di prodotti, è difficilissimo provvedere alla catalogazione e alla vendita online. Questo finisce per limitare la scelta a chi si trova sul territorio. Inoltre, i pezzi sono limitati e ciò spesso crea difficoltà a chi deve pianificare la produzione.

In ogni caso, come abbiamo sottolineato nel nostro intervento al Senato, la previsione di incentivi economici per la creazione di archivi e marketplace facilmente accessibili potrebbe far fronte anche alla complementare richiesta di piccole quantità di tessuti da parte dei brand emergenti, che attualmente rimangono – nella più parte dei casi – disattese. 

Allo stesso modo, auspichiamo l’erogazione di incentivi per start-up ed imprese che fanno di upcycling e restyling il proprio modello di business, utilizzando deadstock o capi giunti al termine del ciclo di vita come materia prima, in contrapposizione alla logica estrattiva legata all’uso di materiali e componenti vergini. 

 

Riciclo

Il riciclo è sopravvalutato”, recita un recente articolo della Harvard Business Review. Ciò è dovuto a una serie di ragioni, tra cui limiti tecnologici (ad esempio, è ancora pressoché impossibile riciclare capi realizzati con fibre diverse) e infrastrutturali, oltre ai costi elevati della materia prima riciclata. 

Anche i dati sull’impatto ambientale non sono promettenti. Una recente ricerca basata sull’analisi del ciclo di vita (LCA) dei jeans ha rivelato che l’impatto ambientale derivante dall’acquisto e dallo smaltimento di un paio di jeans è quasi analogo a quello derivante dal riciclo dei jeans e dalla trasformazione in un nuovo paio.

Per quanto riguarda le materie prime, occorre prestare particolare attenzione al poliestere riciclato, che sta diventando sempre più un punto di riferimento per i brand che cercano di ridurre il proprio impatto ambientale: il 95% proviene infatti da bottiglie in PET – e non da abiti riciclati. Inoltre, il poliestere riciclato è estremamente difficile da riciclare di nuovo e si sfilaccia molto più facilmente, rilasciando microfibre. 

Marchi outdoor come Patagonia utilizzano sempre più spesso poliestere riciclato per ridurre la loro impronta di carbonio. Ma quante microfibre inquinanti possono perdere questi prodotti? Guarda questa clip per vedere di persona.  

Uno studio della University of California Santa Barbara ha rilevato che una singola giacca in pile sintetico rilascia una media di 1,7 grammi di microfibre ad ogni lavaggio. Poiché misurano meno di 5 millimetri di lunghezza, la maggior parte delle microfibre scivola oltre i filtri degli impianti di depurazione ed entra in laghi, fiumi e oceani, dove viene ingerito dagli animali marini – fino ad entrare nell’alimentazione e nei polmoni umani.

 

Il cotone riciclato presenta anch’esso delle criticità quanto alla qualità della fibra: il metodo attualmente più utilizzato per il riciclo è, infatti, quello meccanico, che spezzetta le fibre. Per rafforzare fibre più corte e di qualità inferiore esse vengono miscelate con altri filati, quali il poliestere, che rende poi il prodotto non riciclabile.

 

Rifiuti

I rifiuti tessili vengono prodotti durante tutto il ciclo di vita di un indumento. In media, il 35% dei materiali utilizzati lungo la catena di fornitura diventano rifiuti prima che un indumento o un prodotto raggiunga il consumatore. Potrebbe trattarsi di scarti di taglio, stock inutilizzabili a causa di cambiamenti di design dell’ultimo minuto, deterioramento nel trasporto, o stock in eccesso che non viene venduto sul mercato al dettaglio.

Impressionanti le immagini comparse sul profilo di Diet Prada, a cura del reporter Jason Mayne, che mostrano vestiti abbandonati nel deserto cileno di Atacama, molti dei quali non indossati e con ancora i cartellini dei rivenditori. Un problema globale, non solo del Cile.

Il dato che spicca maggiormente e viene più frequentemente citato è, in ogni caso, il 57% dei vestiti che finiscono in discarica ogni anno alla fine del proprio ciclo di vita. 

Ciò che è ancora più allarmante è che molti di questi capi non potrebbero fare altra fine, essendo invendibili anche nel mercato second hand – e addirittura non utilizzabili come donazione, a causa della qualità scadente. Questo è emerso da un recente studio, che ha rivelato come il 40% degli abiti usati donati in Kenya e Tanzania finisce direttamente in discarica

 

La nuova Strategia per il Tessile Europeo pubblicata il 30 marzo 2022 dalla Commissione Europea mira a rendere il settore moda più sostenibile e circolare. Le nuove regole vogliono imporre alle grandi aziende di rivelare quanto stock invenduto mandano in discarica ogni anno, come parte di un ampio piano per reprimere la cultura dell’usa e getta.

L’impegno è assolutamente lodevole ma, a nostro parere, non tiene conto di una serie di criticità. L’unica via è quella di mantenere i vestiti in circolazione più a lungo, il che implica la rivendita, il noleggio e la riparazione, oltre a ridurre la quantità di indumenti che consumiamo, cosa altrettanto fondamentale.

 

Immagini: Francois Le Nguyen Pou; Francesca Mitolo, Gaia Segattini

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