La lotta dei piccoli brand sostenibili
di rén collective
Di Federica Bertolani
Art. 15/2019 – Responsabile editoriale: Lorenza Vacchetto
Si parla tanto di moda sostenibile, e negli ultimi anni si è visto un crescente interesse da parte dei big del settore fashion per introdurre considerazioni relative alla sostenibilità nei loro prodotti e nei loro processi. Tuttavia, un ruolo estremamente importante nel cercare di migliorare la performance ambientale e sociale del settore moda è giocato dai piccoli designer, che costituiscono la maggior parte dei player in questo settore.
Ma sappiamo quali possono essere le difficoltà che questi designer incontrano nel loro percorso verso una moda più sostenibile?
- “Ho bisogno di tutto questo tessuto?”
Una delle principali difficoltà riscontrate dai piccoli brand è proprio relativa ai tessuti che vengono utilizzati nei loro prodotti. Molto spesso infatti devono confrontarsi con il problema dei “minimi di acquisto”, ovvero i fornitori non sono disposti a vendere loro metraggi ridotti di tessuto, in quanto per rendere la produzione economicamente conveniente e procedere con l’ordine, vogliono essere sicuri di poter vendere tutto ciò che producono. E se si stratta di tessuti sostenibili, il più delle volte la richiesta, ad oggi, può essere ancora molto bassa. Questo inevitabilmente può però limitare i designer nella scelta dei tessuti a loro disposizione, e di conseguenza i consumatori per quanto riguarda i prodotti sul mercato.
- “Questo tessuto ha il prezzo giusto?”
E se anche un fornitore dovesse decidere di rifornire il piccolo brand con il tessuto prescelto, c’è un altro aspetto da considerare: il prezzo. Ovvero, un fornitore potrebbe anche decidere di produrre un tessuto per il quale è stata richiesta una piccola quantità, ma per ammortizzare i rischi di non vendere la parte rimanente, di solito richiede un prezzo più alto. Senza contare che le innovazioni non sono gratuite e ad oggi i materiali a impatto ridotto rimangono solitamente più costosi. Per esempio, secondo Textile Exchange (2016), il poliestere riciclato risulta essere solitamente dal 10% al 20% più costoso (al metro) rispetto ai materiali vergini.
- “Ma chi mi supporta in questa sfida?”
Seppur si è notato un crescente interesse da parte dei consumatori nel richiedere alle aziende pratiche più sostenibili, vi è un fenomeno che i ricercatori chiamano “Attitude-Behaviour gap”. Secondo questo fenomeno, il comportamento di acquisto spesso si discosta dai valori stessi del consumatore. Questo significa ad esempio che seppur siamo a conoscenza degli impatti ambientali e sociali legati all’industria del fast fashion, continuiamo ad acquistare i loro prodotti. Infatti secondo molti designer, ancora oggi le decisioni di acquisto dei consumatori di moda non sono basate sulla sostenibilità del prodotto, ma questa è considerata una “top-reason”, ovvero rappresenta una caratteristica non determinante, ma sicuramente apprezzata.
- “Come trovo le informazioni giuste?”
Un’altra difficoltà che affrontano i piccoli produttori è la questione del tempo. Infatti, molti designer emergenti devono gestire il loro stesso business, cercando di essere sempre aggiornati su ciò che è innovativo. Perché in un mondo come quello della sostenibilità, in cui la novità è all’ordine del giorno, è importante trovare il tempo per svolgere lavoro di ricerca. Anche perché, solo negli ultimi anni si è visto un progressivo aggiornamento di tutti quei corsi relativi al design e al fashion, in cui sono stati inseriti corsi specifici inerenti alle tematiche ambientali e sociali, così da formare al meglio coloro che avranno il compito di offrire i prodotti di domani sul mercato.
- “Vi piace la mia creazione?”
L’ultimo ostacolo è riuscire a rimanere competitivi, e quindi è importante non sacrificare lo stile in favore della sostenibilità (Rosenbloom, 2010). Infatti, un capo deve essere accattivante oltre ad essere sostenibile, altrimenti non sarà mai venduto. In un’intervista con una designer inglese, lei ha dichiarato:
“People spend much more time developing all the ideas about lifecycle, or about supply chain, which are extremely important, but then they do not have time to focus on the design itself. And I don’t think that design should suffer. I don’t think that this is the way to sell sustainable fashion”.
Quindi è importante coniugare stile e sostenibilità, ma considerate le varie sfide fino ad ora illustrate, non è poi un’impresa tanto facile.
E allora che cosa spinge questi designer a perseguire questa sfida?
Sicuramente la passione e una spinta personale. Molti brand affermano infatti di comprendere l’importanza del loro ruolo di creatori di prodotti e che è necessario pensare attentamente a ciò che viene prodotto e venduto sul mercato. Come McDonough, fondatore dell’approccio Cradle-to-Cradle, ha affermato in diverse occasioni “dovremmo smettere di fare qualcosa di meno male e iniziare a fare qualcosa di buono” (2013).
È quindi difficile, sul mercato di oggi, portare avanti quello che per molti designer è un impegno, ovvero proporre al consumatore un prodotto di qualità, sostenibile e con un prezzo competitivo. È importante supportare queste realtà, affinché la loro innovazione possa continuare e ci permetta di trovare valide alternative sul mercato che ci facciano sentire unici e distinti dal mercato di massa.
Immagini: Jazmin Quaynor, Karly Santiago, Matthew Henry, David Iskander
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