Maggio 28th, 2023

Green Claims Directive: la Commissione europea contro il greenwashing

di rén collective

Art. 43/2023 – Responsabile editoriale: Lorenza Vacchetto

Di Sara Cavagnero e Rossella Ronca

Il 22 marzo, la Commissione europea ha pubblicato una proposta di Direttiva volta a reprimere le affermazioni ecologiche ingannevoli e fuorvianti. La direttiva sui Green Claims propone che le imprese che operano in Unione Europea soddisfino una serie di requisiti minimi per comprovare e comunicare le indicazioni ambientali, in modo da garantire che gli utenti finali non vengano ingannati da falsi claim ambientali.

La proposta persegue il duplice obiettivo di tutelare le persone con potere d’acquisto da pubblicità fuorvianti e di agevolare le imprese realmente impegnate nel miglioramento delle proprie prestazioni ambientali.

Al centro delle norme proposte dall’UE c’è l’obbligo di supportare qualsiasi dichiarazione con prove scientifiche, verificate da terzi, nonché considerare l’intero ciclo di vita di un prodotto e prendere in considerazione tutti gli impatti ambientali rilevanti.

Sarebbe deviante, per esempio, comunicare i benefici di un prodotto con riferimento ad alcuni impatti/aspetti ambientali, omettendo che il raggiungimento di tali benefici richiede compromessi negativi su altri impatti o aspetti ambientali – ad esempio, un risparmio nel consumo di acqua che porta ad un notevole aumento delle emissioni di gas a effetto serra, o un risparmio di CO2 nella fase di produzione che porta a un significativo incremento delle emissioni di CO2 nella fase di utilizzo.

Nuove regole andranno a incidere anche sull’uso dei claim “carbon neutral” o simili, che dovranno essere supportati da informazioni chiare, che distinguano le strategie di riduzione da quelle di compensazione (offsetting). In quest’ultima ipotesi, la bozza prevede che vi siano prove chiare e documentate circa il reale impatto delle compensazioni.

Per ovviare a tale criticità, sarà necessario evidenziare tutti gli impatti e le relative interconnessioni.

Saranno, inoltre, vietate le dichiarazioni ambientali “autocertificate”, ossia non validate o monitorate da un ente terzo.

Le sanzioni in caso di violazione non sono ancora del tutto definite, ma potrebbero ammontare ad almeno il 4% del fatturato annuo nei Paesi in cui un brand ha diffuso strategie di marketing ingannevole.

La proposta, sebbene molto attesa, ha sollevato notevoli criticità tra gli addetti al settore che ne hanno evidenziato lacune e limiti tra cui:

  • Mancanza di standard e metodologie comparabili
  • Relatività e limitazioni riguardo a comunicazione benefici/altri impatti
  • Rischio di greenhushing o “silenzio verde”, ovvero l’omissione della comunicazione di buone pratiche o target ambientali.
  • Aumento costi validazione dati delle dichiarazioni ambientali

 

Mancanza di standard e metodologie comparabili

In primis, secondo il Policy Hub della Sustainable Apparel Coalition (SAC) la bozza di Direttiva non fornisce dettagli tecnici sufficienti in merito a come i brand dovrebbero corroborare i loro green claims, lasciando il mercato privo di standard coerenti, robusti e comparabili. Ciò lascia alle imprese la possibilità di scegliere le metodologie che desiderano e le regole possono variare da mercato a mercato.

 

Relatività e limitazioni riguardo a comunicazione benefici/altri impatti


Ciò accade se i benefici di un prodotto  vengono messi in evidenza omettendo l’impatto necessario per il raggiungimento degli stessi, restituendo una versione parziale e ingannevole del reale impatto dell’articolo riguardo ad altri fattori ambientali e produttivi. Proprio in correlazione a questo aspetto, ad esempio,  sono state sollevate perplessità in merito ai benefici dei (diffusissimi) capi contenenti polimero plastico proveniente da bottiglie in PET riciclate (rPet): la bozza di Direttiva ha evidenziato come le indicazioni circa i relativi benefici ambientali possano essere fuorvianti, se si considera che l’uso di questo polimero riciclato è in concorrenza con il sistema di riciclo a ciclo chiuso per i materiali a contatto con gli alimenti, considerato più vantaggioso dal punto di vista della circolarità.

Rischio di greenhushing

Secondo la Changing Markets Foundation assisteremo alla crescita del fenomeno del “greenhushing”, ossia alle “omissioni green”.

L’incertezza normativa sta, infatti, già portando alcune aziende a non parlare più dei propri sforzi ambientali: ciò potrebbe risultare problematico e disincentivare le aziende dall’investire in strategie per il clima, in quanto non comunicabili a chi acquista.

 

Aumento costi validazione dati delle dichiarazioni ambientali

Un altro aspetto significativo riguarda i costi legati alla validazione delle informazioni. L’ammontare dipenderà in larga misura dal tipo di dichiarazione ambientale che l’azienda vuole volontariamente divulgare e dal numero di prodotti. Le dichiarazioni basate su analisi LCA e relative all’impatto ambientale di un prodotto lungo tutto il ciclo di vita richiederanno un investimento più elevato rispetto alle dichiarazioni che si concentrano su un aspetto ambientale specifico (ad esempio, il contenuto riciclato di un imballaggio). Quindi, in assenza di correttivi anche di carattere economico, il rischio è che le imprese più piccole e con minore capacità economica possano essere penalizzate dalla nuova normativa.

 

In ogni evenienza, l’iter normativo è ancora molto lungo. La Direttiva dovrà passare al vaglio delle istituzioni europee e, dopo l’adozione, dovrà essere attuata dagli Stati Membri. La buona notizia è che questo percorso darà l’opportunità di perfezionare il testo; la cattiva notizia è che dovremo attendere anni prima di avere norme cogenti e armonizzate per contrastare la pratica del greenwashing.

Cosa possiamo fare noi nel frattempo? Inviare commenti e suggerimenti riguardo alla direttiva partecipando alla consultazione (termine prorogato al 20 luglio 2023).

Come? Basta cliccare qui

 

Immagini: Pexels

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