Dicembre 5th, 2018

Gli impatti ambientali dei materiali ad oggi più utilizzati

di rén collective

Di Federica Bertolani

Art. 7/2018 – Responsabile editoriale: Lorenza Vacchetto

 

Un proverbio famoso dice “l’abito non fa il monaco”. Seppur non sempre vero, ciò che indossiamo ci distingue, ci caratterizza, e ci fa sentire unici. Conosciamo la sensazione che i nostri abiti ci fanno provare, ma conosciamo davvero la loro storia? Siamo consapevoli delle scelte che quotidianamente facciamo quando acquistiamo? Non sempre è cosi, ma è importante prendere consapevolezza del potere che abbiamo come consumatori, a partire dalle materie prime che diventeranno i nostri abiti.

Questa breve overview dei tessuti che maggiormente troviamo ad oggi sul mercato non ha l’obiettivo di definire quale fibra sia più sostenibile rispetto ad un’altra, perché gli impatti da esse generate sono svariati e diversi, ma vuole essere una guida per permettere a tutti noi consumatori di compiere scelte sempre più consapevoli.

 

 

Le prime fra tutte sono le fibre vegetali. Questa categoria comprende fra le più utilizzate il cotone, il lino, la canapa, il bambù e la fibra di cocco. Una delle peculiarità delle fibre naturali è che si decompongono naturalmente attraverso l’azione di funghi e batteri, almeno in teoria. Infatti, la fibra di cotone è biodegradabile, ma una t-shirt di cotone ha anche altri componenti che potrebbero non esserlo. Ad esempio, il filo per cucire è spesso in poliestere, o anche la tintura utilizzata per la colorazione potrebbe rappresentare un aspetto importante da considerare una volta che la fibra si degrada e rilascia una quantità microscopica di colorante nel suolo (Patagonia, 2012).

Inoltre, a seconda che queste piante per la produzione tessile vengano trattate con sostanze naturali oppure con l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti chimici, l’impatto generato può variare considerevolmente. L’uso di pesticidi può porre a rischio i lavoratori che ne vengono a contatto, gli organismi nel suolo, le specie migratorie come insetti o uccelli e, in ultimo, può essere responsabile dell’inquinamento delle acque (Truscott et al., 2013). Un altro aspetto importante da considerare è la quantità di acqua che richiede la produzione della fibra del cotone. Secondo il Water Footprint Network, il cotone è considerato come il più grande consumatore di acqua nella filiera dell’abbigliamento. L’impronta idrica (water footprint) è un indicatore del volume totale di risorse idriche utilizzate da un paese per produrre i beni e i servizi consumati dagli abitanti della nazione stessa. Comprende l’acqua, prelevata da fiumi, laghi e falde acquifere (acque superficiali e sotterranee), impiegata nei settori agricolo, industriale e domestico e l’acqua delle precipitazioni piovose utilizzata in agricoltura (WWF). L’impronta idrica media del tessuto di cotone è di circa 10.000 litri per chilogrammo, ma può variare in base a dove avviene la produzione: infatti, l’impronta idrica del tessuto di cotone prodotto in Cina è di circa 6000 litri / kg, mentre l’impronta dello stesso prodotto in India è di circa 22500 litri/kg, per le diverse condizioni ambientali.

Passiamo ora a considerare  le fibre di origine animale, come ad esempio la pelle, la lana o la seta, che comportano sia problemi etici che un potenziale impatto ambientale significativo. Poiché i processi di produzione possono includere alimentazione forzata degli animali, spiumatura e pratiche di macellazione non sempre etiche, i brand devono tener conto di un numero maggiore di clienti che chiedono garanzie per il benessere degli animali nel processo di produzione dei materiali.

 

 

Per queste fibre, un aspetto importante da considerare quando si valutano i loro impatti ambientali, è il modo in cui gli animali interagiscono con l’intero ecosistema. Infatti la produzione di queste fibre comporta una grande impronta sul territorio, soprattutto a causa del loro ampio uso di terreno e dell’elevato rilascio di metano, un forte gas serra responsabile del cambiamento climatico. Questo è ciò che sta accadendo in Mongolia o in Cina, dove l’aumento della domanda di cashmere ha portato al degrado dell’intero territorio (Ng & Berger, 2017).

Vi chiederete: e i tessuti sintetici invece che cosa sono? Sono tessuti prodotti tramite processi chimici. Tuttavia, anche in questo caso è necessario fare una distinzione: infatti, si possono trovare fibre sintetiche e semi-sintetiche. Queste ultime derivano da polimeri naturali, ovvero provengono da piante che vengono  trasformate chimicamente in polpa e quindi estruse in fibre (Textile Exchange, 2016). Questa categoria include rayon, viscosa, cupro, modal, lyocell (o TENCEL®).

Tra le questioni ambientali da prendere in considerazione, vi è l’uso di sostanze chimiche “pesanti” (heavy chemicals) necessarie per trasformare il legno duro in fibra morbida. Il disolfuro di carbonio chimico, definito come endocrino-disgregante, è ad oggi ancora utilizzato nell’industria della viscosa, anche se è stato collegato a vari problemi di salute e malattie che vanno dal Parkinsonismo all’attacco cardiaco e all’ictus (Changing Markets Foundation, 2017). Lo stesso vale per l’uso di acido solforico, anch’essa sostanza ad oggi ancora utilizzata nell’industria tessile. Inoltre, la ONG Canopy ha stimato che milioni di alberi in foreste in via di estinzione vengono tagliati per produrre il filamento di viscosa, soprattutto nelle fabbriche indonesiane e cinesi, dove la deforestazione è già un problema reale (Rycroft, 2014).

E infine, arriviamo ai veri materiali sintetici, come il poliestere, il nylon e l’acrilico che non esistono in natura ma sono prodotti dall’uomo. Tra il 1980 e il 2007, anno in cui il poliestere ha superato il cotone come fibra principale nel mondo, la quantità di poliestere prodotta annualmente è aumentata da 5,3 milioni di tonnellate a 30,9 milioni di tonnellate (M. Bain, 2015).

 

 

Attraverso un processo di produzione industriale, il petrolio viene trasformato in fibre per l’abbigliamento. Il poliestere è realizzato in polietilene tereftalato, noto anche come PET, ed è lo stesso materiale utilizzato per produrre bottiglie di plastica, quindi allo stesso modo contribuisce alle emissioni di anidride carbonica come qualsiasi altro prodotto a base di combustibili fossili. Inoltre, la quantità di acqua per il raffreddamento nel processo produttivo è considerevole e richiede processi ad alta intensità energetica. Un altro problema rilevante legato a questo tipo di fibre si verifica durante il processo di lavaggio: rilasciano infatti microplastiche minuscole (<5 mm), chiamate microfibre (Leonard, 2016). Le microfibre inquinano i nostri oceani, possono portare alla morte di animali marini e possono facilmente entrare nella nostra catena alimentare e rappresentare una minaccia per gli esseri umani stessi.

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